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Moiras - Raccolta poetica bilingue

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Immagine copertina del libro
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Raccolta poetica bilingue

En Roma, en los Santuarios de la Maravilla celeste el Invisible se desliza. Es la invisible muerte que sueña eslabones de vivos che nunca más morirán. Son la estela esmeraldina del pensamiento de Dios. Es el sueño del Padre que siembra la vida en un nido de amapolas, el canto poliglota de la noches despiertas, un canto de aguas de acequias y de perfumadas estrellas vivientes.

Nella Roma dei Santuari della meraviglia celeste L’Invisibile scorre, è l’invisibile morte che sogna catena di vivi che non morranno mai, sono la scia smeraldina del pensiero di Dio. È il sogno del Padre che semina la vita in un nido di papaveri, il canto poliglotta della notte insonne, un canto d’acqua di cisterne e di odorose stelle viventi.

INDICE
Premessa
La paloma de cristal - La colomba di cristallo
El fin - La fine
Culpa - Colpa
Ninfa - Ninfea
Sirena negra - Sirena nera
La palabra - La parola
Soledad - Solitudine
La piedra sirena - La pietra-sirena
El sol y la semilla - Il sole e i semi
Ellos - Loro
El sello de cal - Il sigillo bianco
Romasola - Romasola
Brasa de misterio - Brace di mistero
El perdón - Il perdono
La chispa - La scintilla
Hagar - Agar
Las Erinias - Le Erinni
La pequeña eternidad - Piccola eternità
¿Qué será? - Cosa sarà?
Violencia - Violenza
La Ciudad ideal - La Città ideale
Visión de cruz y flor - Visione di croce e fiore
Amante escondido - L’amante nascosto
La Nota de amor - La nota d’amore
Epifanías oscuras - Epifanie oscure
Los mártires, soles esparcidos - I soli sparsi: i martiri
Cáliz que sueña - Coppa che sogna
La muerte que vive - La morte che vive
Un trazo - Il segno
Nada, tiempo de infinito - Nulla, tempo d’infinito
Alas sonámbulas - Ale sonnambule
Misterio - Mistero
Cañas - Canne
Roma, fragancia esparcida - Roma, fragranza sparsa
Volveré - Ritornerò
César - Cesare
El espejo de la tierra - Lo Specchio della terra
La siesta - Il meriggio
Grito seco, el mal que permanece - Grido secco, il male che permane
Exilio - Esilio
Por los despojos del bosque ( La Faggetta) - Nel bosco (La Faggeta)
Encuentro - Incontrarsi
Precariedad - Precarietà
El paraíso perdido - Il paradiso perduto
Tiempo para olvidar - Il tempo da dimenticare
¿Quién es? - Lo sconosciuto
El suelo de la tierra - Il suolo della terra
El árbol derribado - L’albero abbattuto
No seré ni recuerdo - Sarò ricordo?
Un yo... apenas - Io appena….
Estar en el límite - Nel limite
Me dejaste, Jesús de los Dolores - Mi lasciasti, Gesù dei dolori
Dolor - Il dolore
La respiración del tempo - Il respiro del tempo
Deformación - Deformazione
El saludo - Salutare
El oficio - Il mestiere
Eso ...que desaparece - Scompare …
Un pez de arena - Un pesce di sabbia
Árbol de palabras - Un albero di parole
Los muros y el ángel - Il muro e l’angelo


APPENDICI
A Roma, sepultada en sus ruinas - A Roma, sepolta nelle sue rovine
Paredes - Carcinacci
Il fiume de Roma - El Río de Roma

L'AUTRICE
Francesca Lo Bue, nasce a Lercara Friddi (PA). I suoi genitori trasferitisi in Argentina la portano con sè. In Argentina compie tutti i suoi studi fino alla laurea in Lettere e Filosofia presso l’Università Nazionale di Cuyo di Mendoza. Vince una borsa di studio del Ministero degli Affari Esteri Italiano, con il saggio “Lirismo y Metafisica en Giacomo Leopardi”. Sotto la guida dell’esimio Professor Aurelio Roncaglia si specializza in Filologia Romanza presso l’Università degli Studi “La Sapienza” di Roma. Si stabilisce a Roma dove vive e lavora.

Ha curato diversi studi letterari sia in italiano sia in lingua spagnola. Ha pubblicato la raccolta di poesie in lingua spagnola “Por la Palabra, la Emoción” Edizione Belgeuse Grupo Editorial – Madrid 2009; in Argentina il romanzo di viaggio “Pedro Marciano” Ex Libris Editorial – Mendoza; in Italia la raccolta bilingue italiano-spagnolo “Non te ne sei mai andato (Nada se ha ido) Edizioni Progetto Cultura 2003 S.r.l. – Roma 2009 - e “L’Emozione nella Parola (Por la palabra, la emociòn)” – Edizioni Progetto Cultura 2003 S.r.l. – Roma 2010.

F.to 14x21, Brossura, pp. 144

RECENSIONE:
Francesca Lo Bue è nata a Lercara Friddi (PA); ha curato diversi studi letterari sia in italiano che in lingua spagnola; ha pubblicato una raccolta di poesie in lingua spagnola, 2009 e il romanzo di viaggio Pedro Marciano, 2009. Moiras è una raccolta di poesie non scandita completata da un’appendice e presenta la traduzione in spagnolo a fronte. Il testo è preceduto da una premessa in prosa dalla quale emerge una Roma caput mundi, archetipo di ogni luogo e civiltà; in tale scritto la parola Roma si ripete iterativamente in brani staccati tra loro di varia lunghezza. Il testo presenta una forte icasticità del dettato e la scrittura, fortemente avvertita, è caratterizzata da sospensione e da una frequente punteggiatura che rende i componimenti molto frazionati nella loro unitarietà di senso. Elemento saliente del testo è un naturalismo, spesso venato da misticismo. La poetica dell’autrice è caratterizzata da accensioni, spegnimenti ed epifanie e si potrebbe definire, in molti casi, della descrizione; è presente una forte densità metaforica e sinestesica, che si coniuga a visionarietà. Spesso s’incontra una certa cifra anarchica dei versi, congiunta a una vena filosofeggiante e classicheggiante e tutto l’ordine del discorso è pervaso da un senso di mistero. Il tessuto linguistico è connotato da un forte scarto poetico dalla lingua standard, che si gioca tramite una complessa tastiera analogica. La natura detta dalla poeta è animata da una valenza spesso surreale, come per esempio nei versi che leggiamo in Ninfea:-“ le lacrime del sole purpureo che sorride”-. I versi procedono per accumulo e le chiuse sono spesso folgoranti; la forma è intrisa da una vaga bellezza e le poesie sono costituite da frasi brevi staccate tra loro. Globalmente Moiras potrebbe essere letto come un poemetto per l’unitarietà della materia trattata; sono descritte spesso figure mitologiche come la Sirena nera e si riscontrano sensualità e fisicità nelle immagini. I componimenti sono concentratissimi e dai versi dell’autrice trapelano stupore e malia e un gusto neobarocco rarefatto nella sua forte dose d’inquietudine. Il misticismo, sia cristiano, sia naturalistico, sia classicistico, potrebbe essere considerato come il filo rosso che lega i vari componimenti in un interanimarsi di materia e natura e sono frequenti le interrogazioni che la poeta esprime nei suoi versi. In Il sole e i semi lo stesso sole viene visto come una divinità ed è nominata la morte.. Il tono spesso è mitico e c’è una forte densità nella scrittura, che procede in modo scattante e armonico. Il dettato è caratterizzato da una certa pesantezza, la scrittura è alta e pervasa da venature neo orfiche. Il versificare è composito, variegato e complesso e spesso caratterizzato da un’oscurità che tende all’alogico. E’ come se i versi avessero un’arcana provenienza, simili ad una voce proveniente da un’arcana conchiglia e le poesie sono costituite da segmenti giustapposti. Si possono intravedere nella scrittura due livelli nel discorso: il primo accade quando a parlare è l’io-poetante molto autocentrato, il secondo è quello che consiste nella raffigurazioni di immagini incantevoli La natura descritta da Francesca Lo Bue è neoromantica misteriosa ed evocativa. Vari frammenti brevi costituiscono le poesie, suddivisi da una fitta punteggiatura. In Moiras la poeta compie uno scavo nella sua interiorità nel suo relazionarsi con la realtà ad essa esterna. Ricorre spesso la presenza di un tu al quale l’autrice si rivolge, del quale ogni riferimento resta taciuto e che potrebbe essere l’amato; si tratta di una presenza che resta nel vago. Nell’appendice ritorna il tema romano della premessa, attraverso delle liriche che dicono la città eterna, che emerge magica ed evocativa e vengono nominate parti importanti della città eterna come il Tevere e Trastevere. Una poesia fondata su forti sensazioni, quella di Moiras, che si apre alla vita attraverso una nominazione fertile, che si esprime in modo intellettualistico ed originalissimo.
Raffaele Piazza.

RECENSIONE:

GIULIANA LUCCHINI per:
Lirica ‘soggettiva’di gusto neo-latino, scrittura moderna.
In una bella ‘Premessa’ di prosa e poesia, Francesca Lo Bue dichiara con orgoglio il suo amore per Roma: “Chi sogna il sogno di Dio vive a Roma, è scelto da Roma”- ‘Espero surge’ (Virgilio, Egloga X). Monumento virtuale alla città, questo libro corposo come una stele inscritta di poesia su entrambi i lati, esprime in doppia lingua, matrice neo-latina, il legame che esiste fra tempo antico e tempo moderno. Spagnolo/Italiano – Italiano/Spagnolo: coppia d’amore duraturo, con quale direzione di precedenza di pensiero, di luogo? ………………………………………………… “ Pietra ci sei? Ci sei, e permani con la tua voce ferma e il tuo rostro straziato.” “Piedra ¿estas? Estás y permaneces, con tu voz detenida y tu rostro despedazado.” ........................................................................... “Ci sei, ci sono ... ci aspettavamo.” “Estás, estoy … Nos esperábamos.” Appena due spicchi di lingue nell’arancia globale, il frutto della Torre di Babele significativo del mondo. Aprono porte chiuse le chiavi del cuore. La poetessa vi gioca il ruolo di sentirsi ubiqua. Da continenti opposti, Italia e Argentina parlano per bocca di poeta una sola lingua d’anima, Patria, cosmo, Natura, viaggio, essenza umana. Un linguaggio che si sente risuonare sui sampietrini di Roma, pavimentazione romana per piedi venuti da lontano, che portano lontano, in un geometrico e sempre in bilico necessario andare di corpo fisico e virtuale: il tacco della scarpa guida ai pericoli da affrontare. Quadrato per quadrato, il piccolo spazio del procedere, ciò che si lascia salvo, ciò che si arrischia. Il passato di un giorno è il passato di secoli, le rovine si assembrano alla mente, felicità perdute, bellezze funeree di un tempo trovato/da ritrovare. “Desenterar un cielo de palabras/” “Disotterrare un cielo di parole” Parole-calamita (..”salvami, Calamita, con la parola prima ..”). Da poli opposti, versi ricchi di figure retoriche amplificano le visioni. Il poeta insegna poesia mentre la muove nell’onda del suono, tacita voce-alta vibra all’orecchio interiore, per ossimori, antitesi, contraddizioni, parole che aprono e chiudono logiche di pensiero dal fondo segreto della sua anima. La voce arriva da dietro le quinte della mente in un teatro dell’assurdo che nella parola chiarifica l’emozione. ‘Lirica ‘soggettiva’: impasta un quadro a colori tempestato di pietre d’artista. L’io afferma la propria identità mentale, circondata di solitudini. L’inventiva soccorre il verso che quasi da solo si crea. La parola sposta immagini impensabili a mezzo di paragoni e accostamenti imprevisti, a sorpresa. Così si cattura l’ascoltatore in una musica fuggitiva. “quiero escribir tu libro”/ “voglio scrivere il tuo libro” (“La Ciudad ideal”/ “La Città ideale”, v.11). Sul primo risvolto di copertina si legge in doppia lingua questo bel testo: “Nella Roma dei Santuari della meraviglia celeste l’Invisibile scorre. È l’invisibile morte che sogna catena di vivi che non morranno mai, sono la scia smeraldina del pensiero di Dio. E’ il sogno del Padre che semina la vita in un nido di papaveri, il canto poliglotta della notte insonne, un canto d’acqua di cisterne e di odorose stelle viventi.” ------------------------------------------------------------------ “En Roma, en los Santuarios de la Maravilla celeste el Invisible se desliza. Es la invisible muerte que sueña eslabones de vivos che nunca màs moriràn. Son la estela esmeraldina del pensamiento de Dios. Es el sueño del Padre que siembra la vida en un nido de amapolas, el canto poliglota de la noches despiertas, un canto de aguas de acequias y de perfumadas estrellas vivientes.” °° Dove sta dunque la poesia? Si trova nella visione d’insieme di un dato testo, come risultato globale che la tecnica poetica produce nella spinta del sentimento, oppure appare in ogni singolo verso? “Il verso è tutto”, scriveva D’Annunzio riassumendo entrambi i punti di vista. Se fosse ogni singolo verso ad essere portatore di poesia, come ogni singola battuta di uno spartito musicale, finirebbe per diventare stucchevole, privo dell’interesse del bello che posa sul sempre nuovo, sull’eccezionale. Sentimento e concetto zittiscono. È nell’insieme delle regole del movimento che si articola l’armonia, quando pensiero ed azione progrediscono per il piacere dell’orecchio sensibile, che viene a coinvolgere tutti i sensi della percezione. In Francesca Lo Bue si trova poesia in entrambi i punti di vista, nel verso singolo, nell’insieme del testo. Nel verso singolo, bene articolate parole-scelte danno la forma dell’oggetto artistico. Si possono citare versi a caso, presi variamente in testi diversi come esempio. Ad apertura di libro. Ogni testo ne è portatore. Alcuni versi qua e là : “..sempre rimane qualcosa di te, vecchia eternità sottile”; “Il libro delle calligrafie scorre nella sera vergine delle stelle”; “Scrivo al cuore di Lui, l’essere al mio risveglio..”; “Sempre qualcosa si spezza e secca/ sempre qualcosa singhiozza, si ferma e passa”; “Come trapasso il peso della mia soggettività?” (si avverte un pensiero filosofico che scorre dentro tutto il testo). Se all’interno di un testo compiuto, lungo o breve, a più livelli di interpretazione si muovono i concetti, gli artifizi sono la procedura di cui si serve la tecnica poetica. Le figure retoriche formano il materiale oggettivo da cui esce il pensiero spontaneamente, adeguando una scrittura scolara a diventare maestra di poesia. Molti sarebbero i testi da citare in questo libro. Fra essi il seguente, preso a caso: Un albero di parole Balugina il minuto, aspettando un albero fiammeggiante. Ci sei Tu, aperto mondo antico irto di distanze, di voci .. Dissotterare un cielo di parole fra colline in ombra. Una mano si alza, un albero si sbriciola nel grigiore della luce di tutti. Non c’è fretta, l’emozione delle essenze arriverà nel maggio delle ghirlande con stille di braci nel cuore. _________________________________ Árbol de palabras Centellea el minuto, esperando un árbol flameante. Estás Tú, ¡abierto mundo antiguo espinado de distancias y de voces. Desenterrar un cielo de palabras entre colinas en sombras. Una mano se levanta, un árbol se desmigaja en la grisura de la luz de todos. No hay apuro, la emoción de las esencias llegará cuando abril florece, con rocío de brasas en el corazón. La bellezza di articolare due lingue contemporaneamente. Il pensiero si sovrappone a se stesso con parole uguali e diverse. Quale parola arriva per prima? Mistero della mente mescolatrice del flusso della coscienza, indefinita sostanza d’informazione. Le parole fluiscono da sole: “poesia inesauribile che non arriverà mai all’ultimo verso”, diceva Luis Bórges. Il monumento sentimentale che F.L.B. erige sulla pagina per Roma, si fonda su un verso di affermazione: “Salvezza è ritrovarsi, /abbracci in giardini addormentati,/fragranze significative che si adagiano in urne trasparenti./ (‘Incontrarsi’, vv.1-3, pag.95). Ciò che sembrava perduto permane incorrotto alla memoria. “Roma, corteo della morte che vive”(ultimo verso di ‘La morte che vive’). Nella breve sezione “Appendici”di fine libro la poetessa a chiusura traduce in spagnolo poesie di gustosa ironia, scritte in dialetto romano da vari poeti (cui aggiunge qualcosa di suo). °° “MOIRAS”: una non comune raccolta di poesia. La consistenza dei testi trasporta i mezzi del discorso in innumeri prove di retorica. C’è di tutto: per il tono, assonanze, consonanze, allitterazioni, amplificazioni, antistrofe; per il pensiero, parole d’accostamento paradossale, polisindeto ed asindeto, chiasmo, circolo; ed ancora, sinestesia, metonimia, metafora, inversione sintattica; ed ‘enjambement’; ossimoro (di cui è straricca ). Chi più ne ha, più ne metta. Si rende in pratica ciò che Leopardi già considerava facoltà poetica, quando scriveva : “Vedere dei rapporti fra cose disparatissime, trovare paragoni, similitudini astrusissime e ingegnosissime,.. ravvicinare e rassomigliare gli oggetti delle specie le più distinte, come l’ideale col più puro materiale” (Zibaldone, 21.IX.1821). Il ritmo dei versi si adegua al percorso del testo, lento o veloce, meditativo o solenne, spezzato … Il timbro, nel gusto di cultura spagnola fin troppo denso di aggettivazioni e di sollecitazioni emotive, conduce un ben definito carattere solare, amplificatore dell’abbondanza. Non resta che concludere che qui si tratta di poesia ‘completa’. Bisogna leggere tutto il libro per goderne la visione. °° Il titolo del libro “MOIRAS” (‘le Moire’) sottende l’implacabile Destino, intraducibile a ogni espressione umana (per cui la poetessa non ne traduce la parola). L’Amore soccorre agli effetti prodotti dalle Parche, come evoca l’immagine di copertina: la specie umana si eterna. Di forte impatto il quadro da cui la poetessa si è fatta colpire, che ha scelto: “Carità romana” di Niccolò Tornioli, dalla ‘Galleria Palazzo Spada’ di Roma (ivi si trova nella prima Sala). L’artista illumina il concetto dell’Amore generoso, che, bivalente, nutre il presente e il passato, il bimbo e il vecchio: nutrimento del Padre e del Figlio in grembo alla Donna, la sempre Madre di misericordia, elargitrice di vita e di bellezza anche sul limite dell’estremo.

RECENSIONE:
Pianeta Poesia 2014- 2015

Abbiamo conosciuto Francesca Lo Bue nel 2010 quando ci ha fatto conoscere, presentandolo a Pianeta Poesia, il suo Non te ne sei mai andato che l’autrice ha dedicato alla terra natale, la Sicilia, e soprattutto al padre Salvatore prematuramente scomparso. Un libro bilingue, come le raccolte che seguiranno, perché Francesca è vissuta la gran parte dell’infanzia e tutta la giovinezza in Argentina, terra da cui ha sorbito i colori e i contrasti, e la cui lingua morbida e rotonda ha fatta sua, tanto che nella creazione poetica è privilegiata, e soltanto in seguito tradotta in modo libero e non banalmente letterale, in italiano. A distanza quasi esatta di un anno, nel novembre 2011 abbiamo presentato il suo L’emozione nella parola la cui stesura in lingua spagnola era precedente a Non te ne sei mai andato, stesura in seguito arricchita con la traduzione in italiano delle poesie e con una Nota di cui volentieri rileggo i primi tre versi particolarmente belli e intensi : Perché la Patria non è una né geografica/ Perché la Patria è il cuore/ Perché la Patria è l’espressione delle parole del cuore ( p.15) Ora l’autrice ci propone il suo ultimo lavoro bilingue Moiras per le Edizioni Scienze e Lettere di Roma, bilingue nelle poesie privilegiando sempre lo spagnolo, ma la cui densa, emozionata Premessa si legge nella sola stesura in italiano. Un omaggio a Roma, la protagonista della silloge? Roma, infatti, ultima patria di Francesca, è il tema della raccolta nella quale il destino che il titolo suggerisce è quello della città ma anche quello dell’autrice : destini che si fondono e confondono in un intreccio emotivo dagli esiti simbolici e poetici quanto mai suggestivi . Leggendo le composizioni della silloge mi sono venuti alla mente i versi di Octavio Paz ( Messico 1914-1998 Nobel 1991 ) che nel suo Libertà sulla parola (Guanda 1965 Collana Fenice diretta da Giacinto Spagnoletti : da notare la vicinanza del titolo del libro di Paz con il titolo 2011 della nostra poeta ) ci parla del Destino del poeta con queste parole : Parole?/Sì d’aria/ perdute nell’aria./ Lascia che mi perda tra le parole,/ Lascia che sia l’aria sulle labbra,/ un soffio vagabondo senza contorni,/ breve aroma che l’aria disperde.// Anche la luce si perde in se stessa. Il destino del poeta per Paz, ma anche per Francesca è quello di perdersi tra le parole per ritrovare e ricomporre il filo della vita oscurato e schiacciato da un dolore originario, per tentare disperatamente un rammendo allo strappo della storia. Per Paz la poesia diventa atto di liberazione dentro una memoria continuamente portata alla luce ( vedi L’arco e la lira ) . Francesca condivide fin dalle sue prime raccolte tale convinzione e anche nella recente Moiras : qui Roma appare con i contrasti, le luci, le solitudini, il buio, il sogno e le speranze della Lo Bue. Qui la memoria riscatta il tempo perché : Roma è degli antenati : sono loro che trasformano il tempo in Bellezza e Religione ( p.8 Premessa). Il riscatto della Città, tuttavia, come quello dell’autrice, passa attraverso dolorose contraddizioni, che la scelta dell’immagine di copertina del libro iconicamente riassume. Si tratta di un allattamento, non quello classico della lupa capitolina nei confronti dei gemelli, ma quello rappresentato dal pittore Niccolò Tornioli nel dipinto Carità romana… dove la donna allatta un vecchio mentre il bimbo alla sua sinistra implora e piange… : Roma ( o Francesca?) che predilige il passato e trascura l’oggi? Roma (o Francesca?) in continuo stato d’indecisione tra passato e presente? E tra il vecchio e il nuovo chi perde? Perché la donna porge il seno al vecchio ma guarda l’infante. Domande che adombrano altre domande dei testi che abitano il libro dentro colori spesso cupi di dolore, di considerazioni oscure (p.23), di vento febbricitante (p.25). E se talvolta Roma appare nella grazia splendida d’un giorno pieno di luce, resta pur sempre Romasola (p.33). C’è un sole senza tramonto (p.105) che incombe su un Tempo sempre livido (119) e un sogno dimenticato s’accende come stella nella foschia della sera (127). Le domande della poesia, frequenti com’è nello stile della poeta rincorrono passato e presente e si fondono con il singhiozzo millenario della città, cercando risposte al dolore, a quello che Francesca chiama il sorriso del nulla (125) deluso anche dal Dio cristiano del cui nome l’Urbe porta vanto, ma che appare lontano e assente . Dorme Dio nel suo specchio secco/ nel lusso della sua pace? (85) grida la poesia al cielo che appare sempre più alto ( e il cielo è alto…alto – p. 127 ). I crolli, le ferite delle pietre romane soffrono lo stesso male delle ferite della donna autrice che tuttavia non vuole arrendersi alla fatalità d’un destino avverso. C’è uno squarcio di luce nel Vespero e sopra il muro lungo, spesso appare lo Straniero, l’Angelo (133) dentro il cui volo fermo ma denso di simboli si definiscono e si proteggono nome riscatto e salvezza non solo della Città Eterna, ma anche di chi, come Francesca, vi ha legato il proprio destino. Un destino che allaccia e congiunge Francesca a Roma, ma soprattutto alla poesia, frutto perenne che rosseggia nella siepe oscura, frutto il cui succo d’emozione e visione possiamo anche noi assaporare leggendo i versi effusivi e densi di richiami culturali ed esistenziali di Francesca Lo Bue. P.S. Moiras porta in Appendice la traduzione in italiano d’una poesia di Francisco del Quevedo Y Villegas dedicata a Roma, e quella in lingua spagnola di due composizioni romanesche Carcinacci e Il fiume de Roma, con chiuse poetiche della stessa Lo Bue. Firenze, Casa di Dante, 8 maggio 2014 Mariagrazia Carraroli

Francesca Lo Bue, Moiras alla Casa di Dante il giorno 8.5.2014 ore 16.30 La silloge lirica di Francesca Lo Bue MOIRAS ha struttura di poemetto, per contenuti e forma. E’ una costruzione pittorica e musicale in cui le due lingue naturali dell’autrice si affiancano e narrano contemporaneamente. Per il lettore italiano, risulta più musicale e visivo lo spagnolo, più riflessivo e ricco di rimandi l’italiano. La premessa in prosa fa da ouverture, dettando il tema principale, la compresenza di vita e di morte, di presente e passato, tutt’uno nella città di Roma. Fin dal nome, nel modo di vivere, di essere, Roma diventa archetipo, allegoria dell’esistenza umana, mosaico dell’anima e della vita dalle molteplici sfaccettature. Come bussola interpretativa della narrazione è collocata in premessa, in spagnolo, la citazione virgiliana (Buc. X, 77): Espero surge (venitHesperus in originale, Vespero sorge in italiano). Nell’autore latino è l’invito al gregge a rientrare, al calar della sera. In Moiras è indicazione della tonalità dell’intero spartito: si tratta una voce vespertina, riflessiva, disincantata ma non pessimista, non realista ma vitale e venata di malinconia. Lirica esistenziale, quindi, collocata nella storia dell’uomo, riprodotta in quella di ogni singolo. Accanto alla intensa spiritualità delle cose c’è la storia, la cultura, come espressione profonda del sentire. Il linguaggio poetico è colorito, con immagini insistite, fino all’allegoria. A partire dalle Moiras del titolo, le ‘sorti’, espresse attraverso le figure del mito, le Moire greche, Parche latine, divinità presenti fin dall’inizio della letteratura occidentale a simboleggiare le fasi della vita umana, nascita, matrimonio, morte. E quindi la sorte stessa, il destino di ognuno. E se tutto è rivolto vero la morte, non c’è però il vanitas vanitatum del Qoelet biblico: c’è invece l’amore per la vita, nella consapevolezza dell’inevitabilità della fine. La vita quasi come un incomprensibile (e felice) paradosso: e di questo Roma diventa archetipo, simbolo eterno, oltre i tempi, le etnie e le singolestorie personali. Vive nelle sue rovine, le sue rovine sono vita. Il linguaggio poetico lascia affiorare la sua origine magmatica, mentre viene modellato e rimodellato in immagini sensoriali e culturali, pregnanti di significato e insieme manieristiche. Ne scaturisce una poesia intelligente e colta, che parla con i sensi e parla all’anima. C’è un impeto poetico che fluisce e trascina, ma non estemporaneo, mediato com’è dalla consapevolezza poetica, dalla memoria poetica della lingua stessa; lingue che nel caso di Francesca Lo Bue sono due, entrambe sorgive e naturali. Un libro che si inserisce nella grande tradizione della poesia riflessiva, espressa con la forza immaginifica del mito e la consapevolezza di inserirsi in un lungo dialogo esistenziale, con la fiduciosa attesa dell’arrivo dell’angelo nel ‘mattino sempre nuovo’ (Il muro e l’angelo p.133). Giuseppe Baldassarre

I LIBRI DEGLI ALTRI 103. La necessità del ritorno. Francesca Lo Bue, Moiras, edizione bilingue, Roma, Edizioni di Scienze e Lettere, 2012 ------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------ Moiras è il libro che Francesca Lo Bue dedica a Roma, la sua città adottiva, dove è venuta a studiare Filologia romanza con Aurelio Roncaglia e dove si è fermata poi molto più a lungo, a vivere e a scrivere. Il precedente Non te ne sei mai andato del 2009 era stato, invece, un libro della memoria, un diario di parole e di immagini rivissute, un tentativo di ricostruire con la poesia un mondo forse definitivamente tramontato e certamente non più ricostruibile nelle vicende cangianti e trascoloranti dell’oggi ormai completamente diverse rispetto a quelle del periodo di riferimento. Moiras, invece, è più legato alle vicende del presente e sostenuto da un afflato di riconoscenza nei confronti della città che la ospita, delle sue bellezze, del suo passato. Un testo relegato in appendice come traduzione da parte della stessa Lo Bue ma che resta ancora oggi nitido e stringente nella sua portata e dimensione stilistica e che qui compare in veste di omaggio a Francisco de Quevedo y Villegas lo esplicita sinteticamente e lo manifesta in tutta la sua flagranza di testimonianza straordinariamente efficace : «A Roma, sepolta nelle sue rovine. Cerchi Roma in Roma, oh pellegrino ! / Ma Roma in Roma non trovi ; / quelle muraglie che ostentò son rovi / e tomba di sè stesso l’Aventino. // Dove regnava giace il Palatino ; / limate dal tempo son le medaglie, / ruderi di età e battaglie / piuttosto che stemma latino. // Solo il Tevere rimane, corrente / fertile un tempo, ora sepolcro, / a piangerla con funesto suono dolente. // Oh Roma ! nella tua grandezza, nella tua bellezza / fuggì quel ch’era fermo. / Il fuggevole permane e solamente dura» . L’amore per la Città Eterna si palesa immediatamente nel solerte omaggio al suo grande passato e nel rimpianto per il presente conculcato e offeso dalla sua caduta inevitabile in una dimensione di rovine e di ruderi che l’hanno trasformata da capitale del mondo occidentale a luogo in cui di questo suo status è rimasto ben poco. Ma Roma è pur sempre viva e vitale nella mente dei suoi estimatori. La sua passione per la dimensione di magnificenza, che fu della grande città antica ed è pur sempre ancora magnificamente presente oggi nei resti di ciò che ne rimane, è palese fin dalla Premessa che apre il libro di Francesca Lo Bue : «Il tempo ancestrale guarda al presente, racchiude semi che sparge nel tempo. Il seme sboccia, germoglia e sogna un tempo senza mortalità. Roma-Città, spoglia di pietra umanizzata e passato, insieme di tutto ciò che siamo, di tutto ciò in cui ci trasformeremo : un fu puro d’oblio. Ma Roma rimane, è Tutti : spoglia, resto che dilegua, solitudine. Nell’azzurro / l’albero, il muro / e la linea ondulata che svanisce. / Nell’aria traslucida, una mano assetata, acqua nel vento. / Fulgore di finale illimitato … arriva, / si perde nel grigio cupo che bisbiglia … // Roma è somma di oblii : è un “è stata” che è ancora, concentra, tutte le morti ed è vita perché è ciò che è saldo ; Roma coniugazione di vita e morte. Concentra e riporta nel suo seno di città tutta la nascita e la mortalità dell’uomo : vita con destino di morte, permanenza, eternità dell’essere, immortalità che attrae, che chiama al centro del suo nome. Sortilegio dell’origine quieto / Fascio della morte viva / La morte che mai perisce, / il Tempo di Roma » . Ma perché questo libro è intitolato alle Moiras, le Moire della tradizione classica che scandiscono, implacabili e infallibili, il ritmo del destino umano e fanno in modo che dalla nascita si giunga alla morte sempre presenti con il loro continuo tessere le vicende e gli eventi felici e/o dolorosi dell’umanità ? Il fatto è che le poesie di Francesca Lo Bue sono intessute anch’esse di momenti in cui il destino predomina e trionfa in tutta la sua smagliante potenza e prepotenza : l’amore, la morte, il mistero, il sogno, il ritorno del passato e la sua impronta nel presente sono tutti i temi principali della sfera all’interno della quale la poetessa colloca la “promessa di felicità” che gli deriva dalla poesia. Per la poetessa italo-argentina scrivere versi significa cercare di fermare quegli attimi di cui il destino, infatti, sempre si compone e dare ad essi una collocazione in uno spazio assoluto. Significa, fondamentalmente, salvare qualcosa destinato a perdersi in maniera inevitabile dall’assillo fatale della morte e dell’oblio – recuperare le rovine di ciò che è stato dalla loro totale perdita così come avviene, giorno dopo giorno, alle rovine di ciò che di Roma è sopravvissuto. Le parole della poesia hanno questo compito drastico : permettere all’oblio di assestare sulle cose del mondo il velo di polvere che lo costituisce e, poi, con un colpo d’ala verbale e tuttavia sempre morale, liberarle da esse attraverso un atto salvifico costituito dalla forza espressiva della lirica. Francesca Lo Bue sa che scrivere poesia equivale a farla vivere di tutti i sogni e di tutte le emozioni che l’hanno costituita e che le hanno permesso di emergere. In questo modo, la sua scrittura si consolida in metafore e in costruzioni allegoriche che danno alla sua volontà di testimoniare le sensazioni che l’hanno resa possibile una nuova possibilità di esistenza. Questo progetto di ridare vita a ciò che apparentemente sembrerebbe vittima della morte è particolarmente acceso nella rievocazione della volontà di vita di tutto ciò che è come pure di quello che è stato, anche di coloro che ormai non ci sono più : «Loro. I morti vogliono tornare, / la morte dice che mai se n’è andata. / Che sempre è stata, / sagace, rannicchiata, / che lei non ha luogo né focolare … / Che sempre è qui, al tuo fianco … / Sempre bussa, sempre chiama paziente … / Raramente trova chi l’ami, chi la cerchi. // Per qualcosa che è vita, che è bene, / tiepide ceneri tenaci. / Orfeo tra il fumare di porte chiuse» . I morti vogliono volver, tornare e rivivere e per farlo non possono che attingere alla potenza della forma poetica. Orfeo, simbolo dell’attività poetica, è presente tra le porte chiuse delle tombe cui il suo canto soltanto può portare un po’ di sollievo. La morte vuole confermare il suo primato di sempre, dichiara che è sempre là e non si muove dal suo posto eterno, che è sempre al fianco di ognuno in attesa del momento designato. Solo la poesia può salvaguardare la vita e il suo sogno di riscatto, di ritorno, di recupero delle radici vitali che la morte vorrebbe tagliare. Quello che Francesca Lo Bue auspica è il ritorno : nella sua ottica lirica, il suo atteggiamento non vuol dire soltanto andare all’indietro, restaurare una situazione precedente a quella attuale, recuperare una situazione passata. Il ritorno è la presa di possesso di una condizione nuova e più felice, incontrare dentro di sé il sogno di qualcosa che non c’è mai stato. Lo scrive lei stessa in una poesia ad alta incandescenza tonale e lessicale : «I ritorni. E la strada mi dava le canzoni (Salvatore Quasimodo) Quando vidi la morte negli incroci dei labirinti / Quando vedo il turbinar delle genti / quando spunta vetro per la vita delle idee che verranno / per il suono di Te, / che non ci sei, / quando danzo e supplico, / Cima d’amore / Aquila di Luce / Anima di fenice / Quando ti ritroverò nel sentiero delle colombe bianche, / degli agnelli ambrati / nelle punte di sole della mia casa di parole ? // Riposano le pietre soprannaturali / Senza numero i dolmen allineati. / Negli abbracci attorcigliati delle viti, / nella patria dei morti / nei denti che cavalcano / e nel cappello delle tre cupole, / salvami, Calamita, con la parola prima…» . Quella “parola prima” che è la poesia e che attira gli uomini e la loro forza vitale come una calamita sacra, è anche l’unica speranza e l’unica possibilità di ritorno per chi non vuole arrendersi al Male.